dal Territorio

dal Regionale

dal Nazionale

Le Iniziative

Le Società di Sistema

Né pubblico, né privato. La terza via del welfare

Né pubblico, né privato. La terza via del welfare

Intervista a Mauro Frangi, presidente di Confcooperative di Varese e Como. «È un momento delicato per il welfare: diminuiscono le risorse e aumentano i bisogni»

lunedì 8 giugno 2015

Quando si parla di welfare e di erogazione di servizi di cura e assistenza per gli anziani o per l’infanzia, nell’ambito del non-profit, il pensiero va subito alle cooperative sociali che in questi anni sono state il terminale naturale dei processi di esternalizzazione di servizi gestiti in passato dal pubblico.

Durante la crisi le cooperative sociali hanno confermato la loro natura anticiclica: hanno aumentato il valore della produzione (+14%) e degli investimenti (+19%), hanno mantenuto il livello dell’occupazione del settore, con un leggero incremento (+3%). Una ricerca dell’Università Liuc, commissionata dalla Camera di Commercio di Varese e da Cgil, Cisl e Uil, indica che le figure più richieste nel settore del welfare sono gli ausiliari (7%), i tecnici della riabilitazione (4%), il personale infermieristico professionale (4%) e quello medico (3%).

In provincia di Varese le cooperative sociali sono 180, di cui 110 associate a Confcooperative e si concentrano soprattutto nell’assistenza alle persone. Mauro Frangi, presidente di Confcooperative di Como e Varese, conferma le potenzialità del settore evidenziate dalla ricerca.

Frangi, partendo dalla sua esperienza, condivide i risultati di questo lavoro?

«Innanzi tutto, ritengo positivo che la Camera di Commercio abbia deciso di indagare sul tema dell’occupazione nel welfare. Se parliamo delle cooperative direi che è qualcosa di più di un fenomeno anticiclico. Durante la crisi ci sono stati settori che hanno distrutto occupazione, mentre il movimento delle cooperative ha creato posti di lavoro e continua a farlo. Questa ricerca, che è importante anche per l’immaginario collettivo, che spesso ignora questo dato, è un segno di attenzione importante al settore e spero che non resti un fatto isolato, considerato che tradizionalmente la Camera ci Commercio ha sempre avuto un’attenzione ai temi legati al welfare».

Perché le cooperative sociali si concentrano soprattutto nell’assistenza alle persone?

«Il mondo della cooperazione sociale è uno degli attori più rivelanti nel sistema del welfare, in particolare nella cura e nell’assistenza alle persone, perché è una sua vocazione. Da una parte, gestisce servizi di cura, sanitari, educativi con le cooperative sociali di tipo A; dall’altra, favorisce l’inserimento delle persone svantaggiate con cooperative sociali di tipo B. Nel momento in cui si persegue uno scopo cooperativo si persegue anche un interesse generale della comunità, il fine dell’impresa diventa il fine pubblico. Non ci sono dividendi, ma si dividono la fatica, la gloria e le tante soddisfazioni. Poiché il focus della ricerca era sulle strutture, se aggiungessimo anche questi dati, il fenomeno di cui parliamo sarebbe ancora più significativo».

Dalla mera assistenza alla produzione di valore. È questo il passaggio?

«Le cooperative sociali di tipo B fanno un lavoro di inclusione importantissimo sia sotto il profilo sociale sia sotto il profilo dell’uso delle risorse pubbliche, perché il soggetto produce reddito. Questo è un aspetto che poteva essere integrato nell’attività di ricerca e con i sistemi associativi della cooperazione si potevano fare ulteriori approfondimenti, ma sono certo che ci sarà lo spazio e il tempo per farli».

Per quale motivo l’impresa sociale combacia quasi in modo perfetto con il movimento cooperativo. Non può’ esistere un’impresa sociale profit?

«Nel finanziamento dell’impresa sociale e anche di quella cooperativa il tema dei capitali è il più importante, perché senza investimenti non si può’ fare impresa seria di nessun tipo, a maggior ragione se parliamo di welfare. Il pubblico fatica a fare investimenti e in questo settore c’è spazio solo per i capitali pazienti che guardano al lungo periodo. Ecco perché le imprese sociali profit sono poche, perché chi ha i capitali vuole investirli e ottenere la miglior remunerazione nel periodo più breve possibile. Abbiamo tutti sotto gli occhi la cronaca nazionale dove il welfare, anziché il settore che sviluppa cura e risponde ai bisogni della marginalità, diventa malaffare. Comunque, il modello della nostra cooperazione sociale è un modello a cui l’europa guarda con interesse».

Che fase sta attraversando oggi il welfare?

«È un momento delicato perché c’è la ritrazione del pubblico, gli enti locali sono in difficoltà per i continui tagli alla spesa, a fronte di una società che si caratterizza per  un’espansione dei bisogni che la domanda privata fatica a soddisfare. C’è dunque un effetto domino della crisi che, riducendo le risorse delle famiglie, ne fa aumentare i bisogni di cura e assistenza».

Le famiglie però in questi anni si sono in qualche modo adattate.

«La ricerca fa riferimento al welfare istituzionalizzato, ma la grande spesa che fanno oggi le famiglie per il welfare riguarda le badanti, spesso fuori dall’economia legale. E quella spesa contiene il bene più prezioso perché le famiglie affidano a queste persone i propri cari, le chiavi di casa e tutto questo avviene ai margini dell’economia. Un suggerimento agli attori pubblici perché questo sistema venga integrato e fatto emergere».

Quanto il tema del welfare integrativo deve entrare nella contrattazione sindacale?

«È un tema importante, perché il problema della contrattazione oggi non né solo il miglioramento salariale. Pensiamo al lavoratore che ha un figlio con seri problemi che il padre deve curare. Per quanto buona sia la contrattazione e per quanto munifico sia il datore di lavoro, quel bisogno richiede una risposta precisa. Quindi inserire nella contrattazione la tutela di servizi mutualistici a bisogni allargati della famiglia è una strada da percorrere. Però è ancora un aspetto molto parcellizzato».

Qual è lo scenario per il futuro prossimo venturo?

«Abbiamo tre possibili vie da percorrere. Nella prima il pubblico non ce la fa più, non ha risorse e quindi diminuisce il livello dei servizi. Nella seconda, risponde solo chi può e  con risorse private. Nella terza i cittadini si mettono insieme per creare risposte ai bisogni e anche occupazione. Questa strada non solo è possibile ma è l’unica percorribile se vogliamo trovarci con servizi di cura e di inclusione accettabili».

Articolo di Michele Mancino tratto da VareseNews

 

EUREKA srl

Circolari

I nostri partners